domenica 5 maggio 2024

Oltre l'80% dell'Irpef viene pagata da lavoratori dipendenti e pensionati

L’83,1% dell’Irpef dichiarata dai contribuenti italiani nel 2022 proviene da lavoratori dipendenti e pensionati. Questi e altri dati, relativi alle dichiarazioni 2023 (anno d’imposta 2022), sono stati resi pubblici dal dipartimento delle Finanze.

Le caratteristiche, negative, delle dichiarazioni Irpef 2023, gli evidenti squilibri che da esse emergono, non rappresentano una novità. Rappresentano una conferma di quanto si è verificato negli anni precedenti.

Il principale squilibrio è quello relativo all’eccessivo peso assunto dalle dichiarazioni di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nella nota del dipartimento delle Finanze si rileva “Le tipologie di reddito maggiormente dichiarate, sia in termini di frequenza sia di ammontare, sono quelle relative al lavoro dipendente (53,5% del reddito complessivo e 55,4% del totale contribuenti) e alle pensioni (29,6% del reddito complessivo e 34,6% del totale contribuenti)”.

Questa è la più importante iniquità connessa al pagamento dell’Irpef, in Italia.

Rappresenta l’ulteriore dimostrazione della notevole evasione fiscale che contraddistingue il nostro Paese, poiché l’Irpef viene prevalentemente pagata dai contribuenti con ritenuta alla fonte.

Altri squilibri emergono dai dati relativi alle dichiarazioni 2023.

Il 63% dell’imposta netta totale è dichiarata dai contribuenti con redditi superiori a 35.000 euro.

E cioè quasi due terzi dell’imposta è a carico di una piccola minoranza, il 20% degli italiani. Invece i contribuenti con redditi fino a 35.000 euro (l’80% del totale) dichiarano il 37% dell’imposta netta complessiva.

Inoltre, vi sono 12,5 milioni di soggetti che, di fatto, non versano alcun tipo di imposta.

Un numero che somma i contribuenti nelle soglie di esenzione, quelli per cui l’imposta lorda si azzera per effetto delle detrazioni e quelli per i quali l’imposta netta è interamente compensata dal cosiddetto trattamento integrativo, in sostanza l’ex bonus 80 euro.

Tali squilibri potranno essere eliminati, o almeno ridotti, solo se verrà approvata una riforma complessiva dell’imposizione sui redditi.

L’attuale governo, per la verità, non sembra che possa o voglia attuare una riforma di questa natura, che sia contraddistinta anche da una vera lotta all’evasione fiscale.

domenica 28 aprile 2024

In Italia si continua a non spendere i fondi europei

 

Non è certo una novità. Infatti è da tempo che in Italia non si riesce a spendere completamente i fondi che vengono concessi dall’Unione europea. Sorprende comunque il fatto che non si sono registrati negli ultimi anni miglioramenti significativi. E ciò preoccupa soprattutto perché i cospicui fondi del Pnrr  dovranno essere spesi tutti entro il 2026.

I fondi europei a cui faccio riferimento, rilevando i ritardi nel loro utilizzo, sono quelli inerenti il Fesr, fondo di sviluppo regionale, e Il Fse plus, il fondo sociale plus.

Il periodo relativo all’utilizzo di questi due fondi è il 2021-2027.

In base ai dati forniti dal dipartimento per le politiche di coesione, dpcoe, dipartimento del governo italiano, allegati al documento di economia e finanza consegnato recentemente al Parlamento, al 31 dicembre del 2023 risultavano attivati progetti per 4,8 miliardi di euro, meno del 6,5% degli oltre 74 miliardi a disposizione dell’Italia, dei due fondi europei prima citati.

E non finisce qui.

Infatti il dato più preoccupante è un altro e riguarda la spesa effettiva, e cioè quanto di quei 4,8 miliardi è stato fino ad ora pagato realmente, solamente 535 milioni, lo 0,7%.

E tutto quanto è stato effettivamente speso è relativo alle Regioni. Infatti i Ministeri non hanno ancora speso nulla. Per la verità tra le Regioni sono riuscite a spendere qualcosa solo le più sviluppate, quindi nessuna di quelle meridionali, e non tutte.

In pratica si è arrivati al quarto anno di programmazione e resta ancora da spendere il 99% delle risorse finanziarie assegnate al nostro Paese.

Una situazione incredibile e davvero preoccupante.

E’ fisiologico che nella prima parte del periodo la spesa sia bassa, ma non così bassa. Infatti considerando la precedente programmazione, 2014-2020, a fine 2016, furono attivati progetti per 13,5 miliardi, pari al 26,1% dei 51,7 miliardi complessivi allora assegnati, una percentuale decisamente superiore.

Pertanto invece di migliorare la situazione è peggiorata.

C’è quindi il rischio concreto che si perdano, a fine periodo, una parte consistente dei fondi assegnati.

Occorre accelerare considerevolmente le procedure di spesa. Spero che le amministrazioni interessate si attivino e che la Presidenza del Consiglio stimoli le amministrazioni in forte ritardo.

Come già rilevato all’inizio, quanto sta ancora avvenendo per l’utilizzo dei fondi europei, che si possono definire tradizionali, desta un ragionevole allarme per le cospicue risorse finanziarie a disposizione del nostro Paese, in attuazione del Pnrr.

Se avvenisse infatti che anche una parte dei fondi del Pnrr non venissero spesi entro il 2026, oltre al danno reputazionale che subirebbe il nostro Paese, si ridurrebbe il contributo alla crescita del Pil che si attende da quei fondi e il Pil stesso aumenterebbe meno del previsto, con le ovvie conseguenze negative che ne deriverebbero.

domenica 21 aprile 2024

In forte crescita le esportazioni di armi italiane

 

L’industria delle armi è storicamente molto fiorente in Italia. I dati contenuti nella relazione annuale del governo al Parlamento sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento lo confermano ampiamente.

Infatti le esportazioni di armi italiane, nel 2023, hanno raggiunto i 6 miliardi 312 milioni di euro, un miliardo e 23 milioni in più rispetto all’ anno precedente (+19,3%).

Destinatari di queste importazioni ben 83 Paesi.

Anche nel 2022, peraltro, le esportazioni di armi erano aumentate, rispetto al 2022, del 13,5%.

Piuttosto consistenti le esportazioni all’Ucraìna pari, nel 2023, a 417,3 milioni, rispetto ai 3,8 milioni del 2022.

Ma nel 2023, il primo Paese destinatario delle esportazioni di armi italiane è stata la Francia, con 465,4 milioni. Al secondo posto appunto l’Ucraìna e al terzo gli Stati Uniti, con 390,3 milioni, al quarto l’Arabia Saudita con 363,1, un Paese quest’ultimo che non rispetta molto i diritti umani (ma che importa se si tratta di esportare armi…). Quinta la Gran Bretagna con 277,6 milioni.

Sono rimaste stabili le esportazioni verso Israele, 9,96 milioni nel 2023 rispetto ai 9,28 milioni nel 2022. Le importazioni di armi da questo Paese sono invece triplicate, da 9,81 milioni a 31,54.

Nel complesso le importazioni, seppur rimaste inferiori rispetto alle esportazioni (le armi quindi hanno favorito il verificarsi di un saldo positivo della bilancia commerciale con l’estero), sono state caratterizzate da un notevole aumento (+71,7%), raggiungendo nel 2023 il valore di un miliardo e 251 milioni.

L’Italia ha importato armi soprattutto dagli Stati Uniti, Svizzera, Gran Bretagna e India.

La prima azienda italiana, relativamente all’entità delle esportazioni di armi, è Leonardo, l’ex Finmeccanica, seguita da Rwm Italia, Iveco defence vehicles, AvioSpa, Mes Spa, Rheinmetall Italia e GeAvio.

Secondo i dati forniti dal Sipri di Stoccolma, riferiti al quinquennio 2019-2023, l’Italia è il sesto Paese esportatore mondiale di armamenti.

Un bel risultato!

In questi 5 anni, rispetto al quinquennio precedente, la quota italiana sull’export mondiale è passata dal 2,2% al 4,3%.

Il primo Paese esportatore sono gli Stati Uniti (42% dell’export totale), seguiti da Francia (11%), Russia (11%), Cina (5,8%) e Germania (5,6%).

Quindi l’Italia ha ottenuto delle buone performances, relativamente alle esportazioni di armi, ma può ancora migliorare…

Pertanto l’industria delle armi fornisce un notevole contributo alla formazione del Pil italiano, ma è auspicabile che tale contributo cresca ulteriormente, nei prossimi anni.

O no?

lunedì 15 aprile 2024

Il debito pubblico è meno pericoloso di quanto sembri

Generalmente, quando si analizza il valore assunto dal debito pubblico italiano e soprattutto il valore del rapporto tra debito pubblico e Pil, si sostiene che entrambi siano troppo elevati. Certo non sono certo bassi, dovranno essere senza dubbio ridotti anche nel prossimo futuro, ma nel giudicarli in modo molto negativo si trascurano alcune caratteristiche del debito pubblico italiano.

Innanzitutto deve essere rilevato che anche altri Paesi hanno un rapporto tra debito pubblico e Pil molto alto.

Quel rapporto in Giappone, da molti anni, assume un valore anche superiore al 200% (in Italia è attualmente circa il 140%), la Francia ha un valore pari a circa il 110% e gli Stati Uniti nei prossimi anni raggiungeranno un valore vicino al 140%.

Poi in Italia dal 1992 fino alla pandemia ha sempre avuto un bilancio pubblico primario positivo, cioè, senza considerare gli interessi sul debito, l’Italia avrebbe avuto sempre un avanzo e non un deficit pubblico.

Quindi, per quasi 30 anni, lo Stato italiano ha chiuso in attivo il proprio conto annuale prima del pagamento degli interessi, cosa che non è riuscita a fare nemmeno la “rigorosa” Germania, ma neanche diversi altri Paesi europei.

Inoltre negli ultimi anni, dal terzo trimestre del 2019 al terzo trimestre del 2023, il debito pubblico è aumentato di 125 miliardi di euro, mentre quello spagnolo è cresciuto di 224 miliardi, quello tedesco di 426 miliardi e quello francese addirittura di 520 miliardi, cioè 4 volte di più di quello italiano.

Un altro aspetto da evidenziare è che il debito pubblico italiano è finanziato per circa i ¾ da investitori italiani. Soltanto, nel settembre 2023, il 27% del totale era la quota in mano a non residenti.

E, ad esempio, la Francia, alla fine del 2022 era invece esposta con finanziatori stranieri per quasi le metà del suo debito pubblico.

Da tali considerazioni ne discendono alcune conseguenze.

In primo luogo il corretto raiting che le agenzie attribuiscono al nostro debito pubblico non si deve limitare esclusivamente al valore del rapporto tra debito pubblico e Pil.

La seconda conseguenza è rappresentata dal fatto che la maggior parte degli interessi sul debito pubblico italiano viene pagata a sottoscrittori italiani, andando in definitiva ad accrescere la loro stessa ricchezza.

La terza è che la quota di interessi sul debito pubblico che l’Italia paga all’estero non è molto superiore a quella che pagano altri Paesi più esposti con finanziamenti stranieri, come la Francia.

La conclusione principale di tutte queste valutazioni è che il debito pubblico italiano è più sostenibile di quanto generalmente venga reputato.

mercoledì 10 aprile 2024

Per la sanità in Italia si spende meno rispetto ad altri Paesi

 

Il sistema sanitario pubblico in Italia viene, o meglio, veniva considerato un modello per molti Paesi europei ed extraeuropei. Tale valutazione sta venendo meno anche perché la spesa sanitaria pubblica in Italia è, attualmente, inferiore rispetto a quanto avviene in diversi importanti Paesi europei.

I dati più significativi sono quelli relativi al rapporto tra spesa sanitaria pubblica e Pil.

Secondo una relazione della sezione Autonomie della Corte dei Conti, nel 2022 quel rapporto assumeva in Italia un  valore pari al 6,8%, contro i valori, decisamente più elevati della Germania (10,9%), della Francia (10,3%) e del Regno Unito (9,3%).

I valori assoluti sono meno significativi per i confronti internazionali ma comunque degni di attenzione.

La spesa pubblica italiana per la sanità oscilla intorno ai 131 miliardi di euro, contro i 427 della Germania, i 271 della Francia e i 230 del Regno Unito.

Inoltre, tra il 2016 e il 2022, la spesa sanitaria pubblica in Italia è cresciuta del 6,6%, mentre, nei tre Paesi anche prima considerati, quella spesa è aumentata molto di più, con valori compresi tra il 24,8% e il 25,4%.

Ancora, la spesa sanitaria pubblica per abitante era pari, nel 2022, a 3.255 dollari, in Italia, il 47% di quella tedesca, 6.930 dollari, e il 57,9% di quella francese, 5.622.

Di conseguenza gli italiani pagano, privatamente, per la sanità, il 21,4% della spesa sanitaria complessiva, mentre i tedeschi pagano l’11%, gli inglesi il 13,5% e i francesi, addirittura, l’8,9%.

Tali dati dimostrano ampiamente che hanno ragione quanti sostengono che la spesa sanitaria pubblica in Italia debba essere aumentata, rapidamente, in misura consistente.

Altrimenti è a rischio la stessa sopravvivenza, almeno nelle forme che fino ad ora conosciamo, del sistema sanitario pubblico italiano.

E sempre di più gli italiani saranno costretti a ricorrere al privato, per la sanità, e coloro che non saranno in grado di farlo, per le loro ridotte disponibilità economiche, dovranno rinunciare a curarsi, come del resto già avviene.

lunedì 25 marzo 2024

In forte crescita gli imprenditori stranieri

Negli ultimi dieci anni il numero degli imprenditori stranieri è notevolmente cresciuto. Le persone fisiche nate all’estero che hanno il ruolo di amministratori, soci o titolari di imprese attive in Italia sono 775.559 (dato al 31 dicembre 2023). Erano poco più di 609.000 nel 2013: la crescita è stata dunque del 27,3% in dieci anni.

Nel 2003 gli imprenditori immigrati erano 313.352: in 20 anni, dunque, sono più che raddoppiati.

Questi dati sono forniti dalla fondazione Leone Moressa.

Invece gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti, nel decennio 2013-2023, del 6,4%: erano 7,14 milioni nel 2013, e 6,68 milioni nel 2023.

La maggior parte degli imprenditori stranieri in Italia sono nati in Romania, Cina e Marocco.

Nel 2023 si è registrato anzi il sorpasso della Romania (78.258) rispetto alla Cina (78.114) come primo Paese d’origine. Queste due nazionalità, insieme, rappresentano oltre il 20% degli imprenditori immigrati in Italia.

Confrontando gli imprenditori per ciascun Paese con la popolazione in età lavorativa nata nella stessa nazione e residente in Italia, la fondazione Leone Moressa calcola il “tasso di imprenditorialità” per ciascuna comunità.

Tra i nati in Italia, gli imprenditori rappresentano il 12,4% della popolazione. Fra gli stranieri, il tasso di imprenditorialità è lievemente più alto (15,1%).

Quattro Paesi stranieri presentano un tasso di imprenditorialità superiore al 20%: si tratta di Cina (25,4%), Bangladesh (21,2%), Egitto (21,1%) e Brasile (20,9%).

Si attestano sopra la media del 15,1% anche Pakistan, Marocco e Tunisia. I valori più bassi si registrano invece tra gli immigrati provenienti da Sri Lanka (4,5%), Ucraina (4,3%) e Filippine (1,3%): in queste comunità è molto più rilevante il lavoro dipendente, soprattutto nel comparto domestico.

Le donne rappresentano il 27,6% degli imprenditori immigrati in Italia. L’incidenza della componente femminile è nettamente maggiore per alcune comunità, come quella ucraina (57,6%), del Brasile (48,4%) e della Cina (45,6%).

Considerando le imprese, non più gli imprenditori, si può rilevare che quelle a conduzione straniera sono 586.584, con un’incidenza dell’11,5% sul totale  (il numero di imprese a conduzione straniera è inferiore a quello degli imprenditori perché nella stessa azienda ci possono essere più persone fisiche nate all’estero con il ruolo di amministratore, socio o titolare).

Quasi un’impresa straniera su cinque si trova in Lombardia (19,2%), seguita da Lazio (11,3%), Toscana (9,7%) ed Emilia Romagna (9,3%).

E’ interessante, oltre alla distribuzione territoriale, il dato sull’incidenza delle imprese straniere sul totale delle imprese di ciascuna regione.

In alcuni territori il peso delle imprese straniere è infatti superiore alla media nazionale: è del 17,2% in Liguria, del 16,6% in Toscana, del 14% in Friuli Venezia Giulia, del 13,9% in Emilia Romagna.

Quanto ai settori di attività, un terzo delle imprese a conduzione straniera si concentra nel commercio. Complessivamente, quasi il 60% delle imprese straniere è dedita al commercio o alle costruzioni.

Anche in questo caso, è interessante analizzare l’incidenza rispetto al totale delle imprese di ciascun settore.

Questo valore raggiunge il picco massimo nell’edilizia (dove le imprese a conduzione straniera rappresentano il 20,6% del totale) e nel commercio (15,2%).

Nell’agricoltura e nei servizi sono invece molto più rappresentate le imprese italiane: l’incidenza di quelle a conduzione straniera sul totale è infatti rispettivamente del 2,9% e del 7,9%.

Risulta evidente che, attualmente, il peso dell’imprenditoria straniera, nell’economia italiana, è rilevante. Non sono numerosi solamente i lavoratori dipendenti stranieri.

E’ piuttosto significativo il fatto che il tasso di imprenditorialità sia maggiore fra gli stranieri che fra gli italiani.

Pertanto occorrerebbe una maggiore attenzione, e politiche specifiche, nei confronti dell’imprenditoria straniera, soprattutto al fine di aumentare il suo contributo al Pil nazionale.

lunedì 18 marzo 2024

Le attività speculative delle banche

Le banche italiane da quando la Bce ha adottato una politica monetaria restrittiva, caratterizzata da un aumento dei tassi di interesse, sono state contraddistinte, tutte, da attività che non possono non essere definite speculative.

Infatti hanno aumentato i tassi di interesse sui prestiti concessi alle imprese e alle famiglie e hanno aumentato di poco, e in alcuni casi non hanno fatto nemmeno questo, i tassi sui depositi.

Il cosiddetto margine di interesse, la differenza cioè tra tassi attivi e passivi, principale fonte dei ricavi bancari, è quindi aumentato, determinando una crescita degli utili, e quindi anche dei dividendi, delle banche, eccessiva.

E questo comportamento non può che essere definito speculativo.

Tale comportamento non è certo una novità. In altre occasioni si è determinata la stessa situazione.

Ma non per questo non deve essere, ancora una volta, criticato, in quanto ha causato una riduzione consistente de reddito disponibile dei clienti delle banche e ciò ha favorito anche un rallentamento della crescita del Pil.

Stupisce che la Banca d’Italia, a cui spetta la vigilanza sull’azione delle banche, non abbia fatto nulla.

E stupisce anche che l’autorità antitrust non abbia battuto ciglio perché si è oggettivamente verificato un accordo, più o meno tacito, tra tutti gli istituti di credito.

Quanto avvenuto giustifica la misura del governo che voleva tassare i cosiddetti extraprofitti delle banche, ma che poi ha fatto marcia indietro, anche perché la misura in questione era stata mal concepita, lasciando alle banche stesse la scelta di destinare quanto potevano pagare sotto forma di tasse al rafforzamento del proprio capitale.

E tutte le banche ovviamente si sono orientate verso la seconda alternativa.

Mi sembra necessario che quanto prima la Banca d’Italia modifichi il suo orientamento e costringa le banche a ridurre i tassi sui prestiti e ad aumentare i tassi sui depositi.